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Altri libertini

2013, Pier Vittorio Tondelli

4.5/5

RecensioneL’Ultimo spettacolo nella Correggio del mio Tondelli 20 anni dopo. Un «tondelliano postumo» rilegge le opere libertine ora raccolte in 2 volumi Christian Frascella, Tuttolibri - La StampaHo saputo chi era Pier Vittorio Tondelli quando lui non era più di questo mondo da un paio d'anni. Mi capitò tra le mani una copia di Altri libertini, sfogliai le prime pagine, trovai la sua scrittura lontana da ciò che mi interessava allora, e misi via il libro. Ciò che mi infastidiva maggiormente, credo, era l'alone sacrilego che accompagnava quel libro di successo. Sapevo che era stato al centro di una causa per oscenità, qualcuno voleva che fosse ritirato dalle librerie, e che quella causa aveva contribuito a farlo leggere ancora di più. Forse per colpa di libri che si erano portati dietro accuse, fatwe, fama di scandalo e che avevo letto senza capirci un accidente, o trovandoli indigesti polpettoni ripieni di droghe e sesso spinto e senza un briciolo di anima, ero prevenuto anche nei confronti di Altri libertini.Fu poi uno scritto del critico Fulvio Panzeri, anche quello capitatomi sotto gli occhi per caso, ad accendere un barlume di interesse; e poi le letture di due autori come Culicchia e Ballestra che Tondelli aveva aiutato a esordire alimentarono il barlume acceso da Panzeri, e fu con vivo interesse che ripresi Altri libertini. Be', inutile sottolineare che fu un'esperienza folgorante.Il libro non era cambiato da quando lo avevo sfogliato la prima volta: ero cambiato io, ero un lettore maturo, ero pronto a lasciarmi trascinare nelle avventure di quelle busone, quei tossici gay con un'anima vagabonda e disperatamente sentimentale, quelle ragazze che si erano fatte una cattiva reputazione perché discinte e promiscue, ma nelle quali pulsava un amore più puro e toccante di quello di una suora per Cristo.C'era questa provincia emiliana ritagliata sulla nativa Correggio, che sembrava un po' il set de L'ultimo spettacolo di Bogdanovich, là dove i tavolacci freddi del «Posto Ristoro» andavano a sostituire il bar-sala da biliardo e il cinema in dismissione di Sam il Leone.Quei personaggi e quei posti mi ispirarono da subito (e continuano a farlo) una furente e tenera passione: erano esistenze ai margini che prendevano il centro della scena, per poi dileguarsi, all'ultima pagina, nella nebbia di un futuro incerto ma quasi sicuramente disgraziato.Gli outsider di Bukowski e Selby jr, che avevo ritenuto individui così tipicamente americani, in realtà erano passati anche nella nostra letteratura, e in ritardo ne prendevo coscienza. Dico ritardo, ma forse non è così. Semplicemente Tondelli era un autore di un'altra generazione, e io dovevo, come ogni buon lettore, risalire il fiume del tempo per incontrarlo e ammirarlo: siamo tutti successivi a qualcuno o qualcosa di eccezionale. Ma era il linguaggio il corpo tramortente dei racconti dello scrittore emiliano: l'infilata di bestemmie, citazioni, parole sgrammaticate, periodi senza punteggiatura, dialoghi parossistici e teneri, descrizioni sguaiate di stati di follia, intuizioni verbali, scippi dai fumetti, la coloritura a tinte forti di destini/declini. Tutto, nei tocchi di Tondelli, diventava orgia di vita e poesia dell'annullamento.Ogni racconto ti lasciava dentro un senso di infatuazione colpevole, un brivido incantato da sguardo nell'abisso. Tondelli non era quel tipo di scrittore di cui vorresti avere il numero di telefono per chiamarlo dopo che hai finito di leggere un suo libro: perché non avresti saputo cosa chiedergli e che tipo di complimento fargli. E non t'importava se fosse un'asceta della parola tutto preso dal mito di se stesso oppure un artista sensibile alla lusinga: Tondelli, almeno per me - se avessi cominciato a leggerne le opere quando ancora abitava questo mondo -, sarebbe esistito attraverso i suoi scritti: che fossero racconti, romanzi, commedie, articoli, o testi inclassificabili come Un weekend postmoderno, a me sarebbe bastato sapere che esisteva, e che scriveva, scriveva. Leggerlo postumo mi ha sollevato dalla responsabilità di incontrarlo, di vederlo in diretta appollaiato sulle poltrone di qualche fichissimo salotto televisivo, a consumarsi in trite dissertazioni sullo stato delle cose e a consumarmi la stima. Cinicamente, la morte me lo ha reso più affascinante, più vero, più avvicinabile. Come spero possa accadere alle generazioni dopo la mia, in quel risalire indietro nei decenni che è continua fonte di meraviglia e nostalgia.

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